Uno sguardo dal Selim Pass, racconto di cicloturismo
Racconto presentato al concorso Il Bicicletterario 2017 (menzione di merito)
Sollecitai l’altimetro sul manubrio della bicicletta per vedere confermata la mia ipotesi. Quando le cifre apparvero sullo strumento,
lessi ad alta voce perché il mio compagno di viaggio udisse: “Duemilaquattrocentocinquanta” e aggiunsi: “L’altezza più o meno del passo, e ancora nessun segnale ad indicarlo?” Già da qualche chilometro, complice la fatica, invocavamo di vederne uno.
“Almeno un cartello, una qualsiasi indicazione per fare la foto.”
“Racconteremo che non c'era.”
“E chi ti crederà? Dai, mettiamoci in posa comunque.”
Eravamo proprio sul Selim Pass, perché poche pedalate più avanti, invisibile sino allora e percepibile solo nell’attimo della sua spettacolare discesa, si apriva la valle. Come su una carta topografica era possibile interpretare il paesaggio attraverso i colori diversi di rocce, rupi e macchie di alberi aggrappate stentatamente al terreno, eroso e franoso. Come un nastro caduto a terra accidentalmente, così l’asfalto nuovo della strada serpeggiava luminoso e finiva proprio là dove il cielo si univa alla terra. “Gioia, felicità: accompagnatemi lungo la discesa del Selim Pass!”.
Fu il primo pensiero. Ma “Il pensiero ondeggia come il mare, mormora come le erbe del prato, sussurra chiaro come acqua che scorre” (*) e prima di abbandonare il valico tornai a guardare la strada percorsa nella mattinata. Un percorso non facile, e - ora che la che fatica era terminata - anche non difficile. E rividi i bambini sorridenti il con il nostro caschetto alla partenza e l’umile famiglia che ci invitò a condividere il pane lavash condito con erbette selvatiche, il guado del ruscello a gambe sollevate e le piccole mele verdi che ancora tenevo in tasca donateci da un bambino e da un anziano fermi presso una fonte, il balletto sonoro che api ed insetti interpretavano sui mille e mille fiori lungo i bordi della strada e le farfalle che ad ogni fermata si posavano sulla borraccia attratte dalle dolci gocce essiccate.
Respirai per un momento a occhi chiusi, e appesi quei ricordi alla mia mente. Al chiodo più in alto andò a fissarsi un nome che avevo scritto sul taccuino, Haykanush, il nome di una adolescente in jeans e maglietta, di forse dodici anni, incontrata in un villaggio. Ci eravamo fermati per qualche istantanea in quel luogo. Il teleobiettivo scrutava le poche case con il tetto in lamiera, e si fermò sull'uscio di una porta dove, all'ombra degli stipiti, sostava la ragazza, rivolta verso di noi, da poco arrivati sulla strada.
Si accarezzò i capelli e li raccolse dietro la nuca nel gesto femminile di chi si accorge di essere osservata o si dispone ad un incontro. Si ritrasse nell'ombra interna. Curioso, raccolsi immagini dai dintorni, sui campi brulli con qualche gallina, sulle macchine agricole arrugginite e ferme lungo il muro pericolante sull’unica via. Ritornai con lo sguardo sull’uscio, dove nessuna figura stava più a guardare. Fui attratto da un ripetuto vociare alle mie spalle.
“What is your name? What is your country?” A rivolgerci la parola era una bambina, la più grandicella di un gruppetto formatosi attorno a noi.
“We are Italian, you speak English very well, where have you studied English? At school?”
“Not at school, here!”. Analizzai rapidamente: una bambina stava studiando Inglese in quel luogo, in quel villaggio sperduto, sulla strada tra Martuni e Yeghegnadzor, tra abitazioni con il tetto di bande ed erba, dove il letame si essiccava al sole e brandelli di lana asciugavano sopra i fili dei recinti o sopra le ruote del trattore corroso, tra le galline che chiocciavano. Ella parlava quella lingua straniera come nessun abitante incontrato dall’inizio del viaggio. Mi chiedevo perché accadesse che per strada, in hotel, in ristorante o in taxi nessuno conoscesse neppure alcune semplici parole straniere come pane, acqua, dormire, mangiare. Da quella bambina mi arrivò una lezione di novità, di rinascita, di mutamento, testimonianza dell’apertura della sua gente verso un mondo oltre il villaggio.
Allontanatasi dall’uscio che me l’aveva rivelata, raggiunse il gruppetto - che nel frattempo si era animato di scherzi e di sorrisi - la signorina in jeans e maglietta e capelli raccolti. Nelle mani teneva un canestro e alcune bottiglie di plastica vuote. Ci passò davanti sorridente, con movenze leggere, e si diresse verso una fonte. Non sbagliavo a pensare che, voler raggiungere il pozzo per l’acqua, fosse una scusa per incontrarci. Ritornò con l'acqua, ci passò più vicina e, voltandosi dalla nostra parte, sorrise ancora.
La sua espressione era portatrice di un ulteriore insegnamento riguardo il popolo armeno di montagna: dignità, rispettabilità, decoro, nobiltà e desiderio di aprirsi, di rendersi utili: non a cercar lodi o indurre stima ma perché è naturale, sta nei comportamenti di oggi come in quelli di ieri. Le feci cenno di avvicinarsi. Parlava un buon inglese, Haykanush. Viveva a Geghhovit con i genitori, una sorella in procinto di sposarsi e un fratello che stava per diventare dottore. Dal volto sereno e delicato, dagli occhi profondi e scuri apparivano i lineamenti dell'innocenza. E si lasciò facilmente fotografare, con spontaneità da modella. Facemmo qualche scatto insieme e ci invitò a spedire le foto all'indirizzo che stava scrivendo sopra il mio taccuino. Poi, com'era sopraggiunta, riattraversò la strada, con quelle bottiglie piene d’acqua. Dall’ombra dell’uscio, appoggiata allo stipite, attese definitivamente la nostra partenza. Alzò la mano per salutarci, sorridendo di nuovo.
Quel viaggio in bicicletta in Armenia divenne un libro di 140 pagine di forti emozioni. Non fu necessario che io sostenessi in seguito quei ricordi, fu solo un dovere averli amati. Neppure tu cuore mio/ sai quanto costa la mia pena/ se per vivere i ricordi/ mi aggrappo alla catena/ che profuma di fatica/ e la strada si colora/ di sorrisi e di sospiri/ e l’amicizia mi regala/ nuove mete per partire.(**)
“Hello!!!! Do you recognize me?” Accanto al messaggio, sul mio profilo Facebook, si era illuminata l’icona della richiesta di amicizia.
Confermai la richiesta, e nel profilo armeno, scrissi: “Ti prego, di spiegare meglio chi sei e l’eventuale luogo di un nostro incontro. Io visitai l'Armenia tre anni or sono in bicicletta.” Poche righe, buttate giù sul momento dopo aver sorriso a quel profilo di ragazza, che manifestava il suo primo approccio con il social network attraverso una serie di immagini personali. Sorridente ed elegante, in camicetta e gonna, aveva certamente compreso il modo di far breccia nel cuore di tanti amici, affidandosi anche ad una rosa rossa che teneva in mano.
Era ritratta a lato della lavagna di una scuola, quasi in attesa di poter scriverci sopra i nomi dei futuri amici. Aveva certamente a che fare con il mio viaggio in Armenia e dunque, un po’ incerto, affidai il messaggio all’etere affinché percorresse quell’insolita via verso l’amicizia. E attesi per più giorni. Arrivò una risposta, bruciante, come la gioia che ferisce a volte il cuore: “Sono la ragazza fotografata con voi a pagina centoventisette del vostro libro, in fondo alla quale è scritto in italiano: Parlava un buon Inglese, si lasciò facilmente fotografare con spontaneità da modella.''
Il libro, questa volta, si fece esso stesso autore di una nuova pagina, regalandomi l’intuizione che non fosse ancora tempo di scriverci, in calce, la parola fine. Consapevole che quel viaggio in bicicletta sarebbe durato finché ne sarebbero stati vivi i ricordi, mi preparavo ad appenderne ancora molti nella mia mente, per ascoltarli fluttuare come onde, mormorare come le erbe dei prati e adagiare i loro chiari sussurri sopra l’acqua del tempo. Che intanto scorre. (Fernando Da Re)
(*) tavola sumerica II° millennio a. C.
(**) versi dell’autore
Il concorso letterario Bicicletterario è l’unico concorso per letteratura “in bicicletta”