Basilea - Bruxelles
diario di una ciclista selvatica
Chissà perché quando parlo di fare una vacanza in bicicletta i miei interlocutori mi guardano in modo strano, alcuni addirittura retrocedono. Piove da 15 giorni, vado a lavorare in bicicletta ogni giorno, ho più di un mese di ferie arretrate e ormai devo partire, poi si vedrà.
Verona - Basilea con treno
I ferrovieri che mi aiutano a caricare la mia bicicletta sul treno per Milano sono due ragazzi molto carini, il posto per le biciclette è ampio, (siamo solo in due). Getto lo zaino sul sedile a fianco a me e che il viaggio abbia inizio! Da Milano a Basilea con intercity. Contendo con i numerosi viaggiatori, tutti dotati di enormi valigie l’unico posto per bici disponibile. La pista ciclabile che mi accoglie a Basilea si snoda ben segnalata, con semafori dedicati, frequentata da parecchi ciclisti. Strade a pavé e rotaie di tram. Naturalmente, piove.
Il centro è piccolino, le biciclette si chiudono anche senza fissarle al palo (ah, gli svizzeri…), l’architettura nordica è ingentilita da alcuni splendidi spunti liberty, un coro improvvisato nel cortile della Rathaus mi accompagna nella mia passeggiata. D’improvviso, alle diciotto, scompaiono tutti: i negozi chiudono, la gente va a casa, il centro diventa un deserto, solo la pioggia continua. Fortunatamente, il gentile signore che mi ospita in Svizzera, mi viene incontro in bicicletta e mi accompagna a casa per una cena italiana e una bella doccia calda.
Basilea - Colmar: 110 km
Parto alla volta della Francia sotto una pioggerella leggera. Complice la pioggia, il fascino del Reno nel silenzio domenicale e l’assente senso dell’orientamento, sbaglio strada e attraverso tutto il porto industriale prima di finire in Germania e quindi riuscire ad attraversare il Reno su una passerella ciclabile a Lorrach per approdare in Francia. Seguo la bella pista lungo il canale dal Rodano al Reno verso la Petite Camargue Alsacienne, dove il fango mi veste con un nuovo abito.
Arrivo a Mulhouse all’ora di pranzo nel deserto più totale (saranno tutti a mangiare dalla suocera?). Dopo aver lavato la bicicletta ad un lavaggio automatico per auto, incontro qualche difficoltà a ritrovare la direzione, a causa delle indicazioni ad uso esclusivo per le automobili. Giro un po’ a vuoto per ritrovare il senso di marcia verso Colmar. Arrivo in serata dopo 110 km percorsi con pioggia a rovesci improvvisi, vento e ad un tratto anche grandine (per fortuna anche in Francia ci sono i ristoranti kebab aperti ad ore improbabili).
Un po’ di sole ha contribuito ad asciugarmi e rendermi presentabile quando busso alla porta dei miei ospitanti francesi: una giovane coppia con due bimbe piccole che mi seguono incuriosite in giro per casa. Lui è un appassionato cicloturista, così il dopocena trascorre tra racconti di chilometri e di ricordi, di fatiche e di soddisfazioni.
Colmar - Strasburgo: 105 km
Visito sotto il sole del primo mattino Colmar. La splendida cattedrale gotica e il romantico quartiere chiamato Petite Venise, con le classiche case alsaziane ben ristrutturate e un suggestivo intreccio di canali e ponti, sono oggetto di attenzione e fotografie. Ci sono anche delle fantastiche panetterie, con dei croissant al cioccolato da far resuscitare i morti. La panettiera trasecola quando le dico dove sono diretta e il rifornimento che chiedo… pensava mi volessi fare un giretto di un paio d’ore!
Oggi mi aspetta la Strada del Vino, che si snoda su una pista ciclabile ben evidenziata, su e giù per verdi colline, bassi vigneti – le viti sono fatte da un tronchetto con due cornetti sottili che si arrampicano su un baso filo orizzontale – attraverso piccoli paesi con piazze antiche, vecchie case, cantine aperte che offrono assaggi dei famosi vini locali: Gewurztraminer, Riesling, Cremant. Finite le colline, mi dirigo ad est e riprendo la pista ciclabile lungo il canale dal Rodano al Reno.
Il silenzio si intreccia al fruscio degli alberi, al richiamo degli uccelli, al mio respiro e al sibilo delle ruote della bicicletta sull’asfalto. La pace. Il canale è scuro e lento, intervallato da chiuse nelle quali chiatte e battelli attendono il loro turno per passare al livello successivo. Quasi tutti hanno biciclette a bordo. Il tempo è nuvoloso ed inizia a piovere quando arrivo a Strasburgo, dopo 105 km di pedalata, inserendomi nel circuito di piste ciclabili tra verde, fiume e canali.
Arrivo alla casa dove sono ospite quasi fradicia malgrado il poncho. La coppia che mi ospita ha recentemente festeggiato quarant’anni di matrimonio, gli ultimi quindici allietati da una passione comune per la bicicletta, tanto da fare insieme un giro di Francia di 2700 chilometri in due mesi e mezzo. Fanno parte di un gruppo di ciclisti locali e lei sta insegnando alle donne musulmane l’arte dell’andare in bicicletta, anche solo per raggiungere il posto di lavoro in modo indipendente. La libertà è movimento, con la bici… è meglio!
Strasburgo - Saverne: 64 km
Un giorno di sosta per visitare Strasburgo. Se esiste il paradiso dei ciclisti è qui: 120 km di piste ciclabili che si snodano tra il centro, il fiume i e numerosi canali, sensi vietati percorribili contromano solo dalle biciclette e ben segnalati, automobilisti educati che condividono tranquillamente la carreggiata. Passeggio per il centro a pavé, assaggio nuove e più golose versioni dei croissant francesi, mi stupisco ancora davanti a Notre Dame, cattedrale gotica in arenaria rosa, la cui torre svetta singola in un intersecarsi di contrafforti, doccioni con figure di mostri ed elementi decorativi che la fanno sembrare un incrocio tra un fumetto futurista e un grattacielo arabo.
Mentre piove, visito il museo di arte moderna: uno spazio altissimo dedicato a opere immortali e contemporanee. Mi faccio stregare da quadri di Picasso, Brauner e Hartung ma soprattutto da un’opera ceramica di Kandinsky che riproduce la decorazione per una sala da musica. Alla sera, un bicchiere di Riesling accompagna la cena francese cucinata da un’abile padrona di casa. E’ il 25 aprile: gli italiani festeggiano la liberazione e i francesi discutono sulle presidenziali.
Io riprendo la ciclabile lungo il canale, pedalo quasi commossa davanti al Parlamento Europeo per scoprire che i francesi hanno incredibilmente dedicato una strada anche ad un italiano (Alcide de Gasperi). Mi dirigo verso nord, accompagnata da numerosi cigni, con i quali condivido la merenda, e da una solitaria cicogna che scappa spaventata al mio arrivo. Giungo a Saverne dopo 65 km facili e sbarco all’ostello della gioventù, un imponente palazzo tardo settecentesco – sul fronte conto ben 35 finestre – iniziato dai vescovi di Rohan e utilizzato successivamente per scopi diversi. Appena arrivo, come una colonna sonora di accompagnamento, inizia a piovere… Mi consolo con un grande piatto di insalata in un ristorante kebab e con un’intera tavoletta di cioccolata consumata con i piedi sopra il calorifero acceso della camera.
Saverne - Metz: 112 km
Giorno della disfatta! Mi preparo a lasciare l’Alsazia e mi dirigo verso la Lorena. Ho ancora negli occhi e soprattutto nello stomaco l’enorme colazione servita in ostello e consumata in compagnia di una cinquantina di esuberanti adolescenti in gita scolastica. Il paesaggio cambia completamente, i paesi si diradano per diventare immensi pascoli e coltivazioni di colza, la pista ciclabile scompare e resta solo un ciglio fangoso. Condivido la carreggiata con il traffico pesante di camion e trasporti eccezionali.
Con lo spostamento dell’aria il poncho mi copre e la vista e la testa ogni volta che mi sorpassano. Piove. Foratura e sosta per sostituire una camera la d’aria. Comincio a percepire la tragedia nell’accorgermi che la mia pompa non si intona alle valvole dei pneumatici. Per fortuna esistono i meccanici di auto e l’aria compressa. Ma la lotta si fa dura. Altra sosta sotto il diluvio per sistemare la caduta della catena e una terza per sistemare il freno posteriore che si è sganciato. Mi preoccupa il tremendo ritardo accumulato sulla tabella di marcia. Faccio una deviazione e raggiungo Falquemont, un paesino industriale, con la speranza di trovare un albergo in mezzo a tutti quei pascoli.
L’albergo c’è, anzi ce ne sono due: al completo. Mi rimetto in marcia, ma ormai è tardi, sento sulle spalle la rigidità della tragedia che mi potrebbe colpire. Alle 21 sto ancora pedalando lontana dalla meta, al buio e nel mezzo della campagna, superata da automobilisti che mi sfrecciano accanto, e percepisco le loro sicure interrogazioni sul mio stato mentale. Arrivo a Courcelles-Chaussy, un altro paesino deserto, ancora sotto la pioggia battente. Ho percorso 112 km, sono fradicia e gelata e all’improvviso ho la mia Epifania… Google Maps! Chiamo un taxi, che mi recupera sotto il diluvio e mi porta a Metz. L’insegna dell’hotel mi fa lo stesso effetto che deve aver fatto a Colombo la silhouette dell’isola Hispaniola.
Pago senza profferire motto l’altissimo conto che mi viene presentato (vorrei anche baciare la receptionist…) e mi infilo sotto la doccia bollente casco e poncho compresi. L’alba del giorno successivo mi vede zompare giù dal letto, ricomporre lo zaino ripulito alla bell’e meglio e saltare dentro il taxi che mi riporta a Courcelles-Chaussy dove recupero la mia fedele bicicletta. La trovo coperta di fango e in deplorevole stato meccanico. Chiedo perdono per averla abbandonata nella tragedia.
La catena stride, mi fido poco ad usare cambio e deragliatore, la gomma dietro lascia un po’ a desiderare. Ritorno a Metz (erano solo 20 km) e decido di prendermi un giorno di fermo. Giro per il centro, passo da un meccanico per dare un giro d’aria ai pneumatici, faccio un po’ di shopping, entro in un bellissimo mercato coperto dove, in un bar à soupes, mi gratifico con un piatto di zuppa fumante, pane francese e un meritato bicchiere di Riesling.
Visito il Centre Pompidou, una struttura che sembra un cappello da gnomo, progettata dall’architetto giapponese Shigeru Ban e dal francese Jean de Gastines. La mostra su Sol LeWitt e il panorama di Metz dall’alto mi rimettono in pace con il mondo, nonostante la pioggia battente e il fatto che Metz abbia strade strette, pavé, cantieri, deviazioni, strettoie e, quasi zero piste ciclabili. L’ostello che mi ospita a sera è in un bell’edificio primi del novecento tra il fiume ed un parco, con vista su prati e salici piangenti.
Metz - Lussemburgo City: 75 km
Trascorsa la notte mi dirigo verso la pista ciclabile Charles le téméraire che corre lungo la Mosella in direzione Lussemburgo. All’inizio è un po’ difficoltoso trovarla e l’attraversamento di alcune zone industriali la rende un po’ desolata, alla fine è comunque un’ottima pista asfaltata e la vista del fiume e del verde è rilassante. Un’iscrizione sulla carreggiata recita “Non c’è alcun bisogno della speranza per intraprendere, né del successo per perseverare”, frase celebre di Carlo il temerario, Duca di Borgogna, che mi pare decisamente intonata al viaggio.
Arrivo a Thionville all’ora di pranzo, giro un po’ per il centro pedonale, recupero del cibo dal solito panettiere e dal fruttivendolo locale e dopo aver lavato nuovamente la bicicletta al lavaggio automatico, pedalo sotto un bel sole caldo attraverso la campagna – ancora pascoli e colza – fino in Lussemburgo. Chi ha dato il nome ai Paesi Bassi doveva avere un gran senso dell’umorismo, perché la strada inizia ad arrampicarsi e scendere, arrampicarsi ancora e riscendere fino ad arrivare a Lussemburgo City, costruita praticamente su un monte, a terrazzamenti e bastioni.
E’ sabato pomeriggio, giorno di shopping, il centro è affollatissimo di gente e automobili tra le più strane io abbia mai visto. Il premio potrei darlo ad una Chevrolet Corvette gialla con una grande aquila dipinta dietro… roba da matti. Ciclisti pochi e non saprei dar loro torto, date le ardite salite e il pavé che a volte mi costringono a saltare giù dalla sella e camminare per lunghi tratti. L’ostello in centro è gremito, quindi ripiego su un hotel all’aeroporto dove arrivo dopo aver percorso circa 75 km. Sulla strada ridacchio tra me mentre penso che è la prima volta che vado all’aeroporto in bicicletta…
Il 29 aprile è il giorno della resa. La sera prima ho fatto una scommessa con me stessa: in caso di sole avrei proseguito in bicicletta, se avesse piovuto avrei preso il treno per Bruxelles. Al mattino diluvia, quindi me la prendo calma a colazione, poi mi bardo di poncho e pedalo su per salite e giù per discese verso la città. La stazione, naturalmente, è in centro, proprio in cima alla salita… Il treno non è strutturato per le biciclette, che devono essere quindi chiuse a chiave in un bagagliaio direttamente dal personale ferroviario.
Malgrado le mie raccomandazioni, il controllore non passa le consegne e all’arrivo a Bruxelles il treno si svuota e io cerco vanamente su e giù per il treno qualcuno che mi apra il bagagliaio. Memore del detto “strilla tanto e ti daranno ragione” inizio a battere forsennatamente sulla porta del bagagliaio urlando in francese condito. In qualche secondo si palesa il personale ferroviario che libera il mio mezzo in un istante (visto?). Bruxelles mi accoglie in una giornata di sole, fa caldo ed è piacevole passeggiare per il centro monumentale, affollato di turisti.
I miei ospiti abitano in una casa a torre di inizio ‘800 vicino alla chiesa del Béguinage, un gioiello barocco in una piccola piazza, molto simile alle chiese italiane. Il padrone di casa è tedesco, la moglie ceca e la figlia è cresciuta in Belgio, quindi tra loro si parlano in quattro lingue. Vivono senza auto, malgrado solo il capofamiglia sia appassionato di bicicletta, tanto da andare da Bruxelles a Strasburgo sui pedali in un solo fine settimana.
Anche Bruxelles è una città su misura di ciclista, ci sono piste ciclabili ben segnate e sensi unici percorribili contromano, addirittura un sistema di tutor che ti aiuta a trovare il percorso migliore se scegli di andare al lavoro in bici. L’unico neo è il pavé e la struttura collinare fatta a saliscendi, che mette a dura prova i muscoli delle gambe. Comunque, il giorno dopo, quando vedo una signora in tailleur e tacchi alti su una microscopica bicicletta pieghevole, pedalare senza sforzo su per una ripida salita, capisco che i belgi hanno davvero una marcia in più, oppure bevono altro che il caffè a colazione…
Il dovere di cronaca vorrebbe che parlassi dei treni che mi riportarono a Verona, ma questa è tutta un’altra storia e vi aspetto prossimamente, magari sintonizzati ancora su questo sito. Ho viaggiato attraverso 6 paesi, percorso quasi 600 km in bicicletta e altri 1400 in treno, in 12 giorni e 7 tappe, ho visto città meravigliose, paesaggi pieni di storia e di natura, di arte e di persone, ho conosciuto gente fantastica, ho parlato in 4 lingue diverse, ho imparato ad arrangiarmi e a chiedere aiuto scoprendo che – ancora una volta – la bicicletta è un mezzo di comunicazione e di condivisione oltre che di trasporto.
Concludo quindi con l’immagine di un cartello stradale fotografato durante il viaggio, “partageons la route”. Condividiamo la strada. L’augurio che ho sentito più spesso è stato “Bonne route!”, buona strada, che è anche l’espressione con cui ci salutiamo tra motociclisti. In fondo, siamo tutti un po’ pedoni, un po’ automobilisti, motociclisti e ciclisti e condividiamo dentro di noi le nostre diverse nature esprimendoci con diversi modi di muoverci a seconda dell’occasione o dello stato d’animo. Condividiamo la strada, consapevoli che siamo tanti e siamo diversi ed è proprio questo il bello di esserci.